domenica 16 ottobre 2011

CITTADINANZA. MARZO 2007. INTERVISTA A DON PIERLUIGI DI PIAZZA


Parliamo di CITTADINANZA. Lo facciamo con Don Pieruigi di Piazza sacerdote che, dall’osservatorio privilegiato della casa di accoglienza per stranieri “E. Balducci” e soprattutto da tutta la sua esperienza personale, ha fatto dell’impegno sociale e dell’attenzione ai problemi dell’uomo il filo conduttore della sua vita di sacerdote. Nel 1981 diventa parroco della parrocchia di S. Michele Arcangelo di Zurigliano. Fino agli anni ’90 è attivamente impegnato nel comitato friulano per la pace, poi intorno al 1989 orienta la sua attenzione a una nuova dimensione fondamentale della convivenza pacifica: l’incontro con l’altro, con il diverso, con lo straniero.

E’ così che nasce il centro di accoglienza per stranieri E. Balducci?
Il Centro è nato dal Vangelo, dall’uso del denaro e delle strutture non in modo individualistico, privato, elitario, ma in modo comunitario. Con un contributo della regione abbiamo ristrutturato la casa parrocchiale ricavando da essa un centro di accoglienza, come piccolo segno evangelico. Di fatto poi hanno bussato alla porta degli stranieri e li abbiamo accolti. Credo ce li abbia consegnati la storia. Oggi il Centro si è ampliato e può ospitare 50 persone ma l’originaria radice evangelica è fondamentale. Abbiamo coniugato l’utilizzo del denaro e dei beni in rapporto all’accoglienza delle persone. Nella società, nel mondo e nella chiesa di oggi è sempre più importante percepire questi intrecci profondi e non dividere le situazioni, perché sono tra loro molto legate. Uno in una casa aperta può accogliere delle persone, ma una casa la apre perché vive un ideale di apertura. Il vangelo sollecita a questo. Questo è il significato della partenza e della continuità di questa esperienza che poi è cresciuta in intensità, non solo per l’ampliamento quantitativo, ma perché accogliere l’altro significa sempre motivare l’accoglienza di noi stessi. Il primo altro con cui abbiamo a che fare è l’altro che abita noi, anche noi siamo diversificati al nostro interno, non siamo un io monolitico ma siamo abitati dalla diversità. Il rapporto con l’altro che è in noi diventa anche il rapporto con l’altro che sta al di fuori di noi, le dimensioni sono reciproche. Oltre che la concretezza del denaro il vangelo ha suggerito anche molto sull’accoglienza delle persone. Il commentare insieme nell’eucaristia “ero straniero e voi mi avete accolto” è stato il modo per dissipare le critiche che, specie nel primo periodo non sono state ne poche ne leggere. Il vangelo è stato per noi come una guida.

Cosa le hanno insegnato 14 anni di accoglienza agli stranieri?
Hanno insegnato a me e al gruppo di persone che ruotano attorno al Centro, che accogliere l’altro significa liberarsi da quel germe di razzismo che abita tutti noi. L’altro ci fa sempre paura, ci mette in questione e ci chiede di rivedere i nostri atteggiamenti, chiede conoscenza e attenzione. Soprattutto credo che la grande ricchezza sia stata quella culturale, nel senso che accogliere persone di diversa cultura e fede religiosa ci ha concretamente sollecitato ad uscire da una presunzione di superiorità. Il riconoscere che noi siamo, come diceva E. Balducci,  una delle tribù della terra. Percepire sensibilità, culture, spiritualità diverse, credo sia stato un salto antropologico. Sembra forse esagerato ma il fatto che persone dall’Africa, dall’America Latina, dall’India, persone di comunità e di popoli che noi come occidente abbiamo per secoli disprezzato e considerato inferiori, vengano chiamati e convocati da noi, si siedano con noi, siano ascoltate e da disprezzati diventino i nostri maestri, a me pare un salto clamoroso. Questa esperienza l’abbiamo vissuta e sono stati sempre momenti molto importanti: con una donna del Chiapas o delle Ande colombiane, del Guatemala, dell’India o del Congo, le vittime delle tragedie di Hiroshima, di Auschwitz, dall’Afghanistan, ci hanno comunicato una straordinaria ricchezza di resistenza, di memorie, di progetti, di dedizione fino a dare la vita, questo è stato un grande arricchimento, un’apertura antropologica del cuore e della mente.

E’ vero che una volta durante una ricorrenza civile si è rifiutato di benedire la bandiera italiana perché “può unirci nel proposito e nell’impegno per la giustizia e per la pace ma può unire per combattere altri popoli?
La bandiera è un simbolo ambivalente, ne sono convinto. I gesti religiosi, come benedirla, possono diventare dei fatti scontati. Talvolta meritano un momento di riflessione. La bandiera può esprimere un grande segno se diventa per noi un’unione per operare per la pace, la giustizia, la fraternità, la dignità delle persone. E’ un segno da criticare o da non seguire se diventa simbolo per andare contro gli altri.

Se c’è una patria a cui veramente apparteniamo tutti, ha detto, è quella dell’umanità!” Così cambia anche il concetto di cittadinanza, apparteniamo contemporaneamente a una comunità locale e a una comunità planetaria.
Oggi è importante vivere questa simultanea appartenenza, la cittadinanza delle comunità in cui siamo nati, in cui siamo collocati, e al contempo la cittadinanza planetaria. Questo ci viene suggerito in modo sempre più evidente anche dalle persone che da ogni parte del mondo sono venute a vivere tra di noi. Non è questo uno sminuire l’appartenenza alla nostra comunità, è viverla con un’intensità che non significa chiusura, che si assolutizza. Se fosse così sarebbe un’identità che chiede di difendersi o di aggredire l’altro, invece di un’identità aperta, dialettica, in un dare e in un ricevere che diventa un arricchimento.

Bisognerebbe inventare una bandiera per la comunità planetaria.
No, c’è già. E’ l’arcobaleno, che non è la bandiera della pace inventata dall’uomo. E’ già nel creato come segno dell’alleanza definitiva.

Non crede che la condizione di straniero non dipenda più solo da un fatto di cittadinanza? Non sono a loro modo stranieri alla nostra società i divorziati? gli omosessuali? le giovani vite che devono ancora nascere o quelle che per l’età o la condizione fisica “potrebbero morire”? Se cambia la definizione di cittadinanza allora cambia anche la definizione di straniero?
Sì, se la cittadinanza è quella decisa dal mondo del capitalismo, della quantità, dell’efficienza, del pragmatismo, della crudeltà, chiaramente tanti non sono più cittadini di questo mondo. La cittadinanza dovrebbe essere, se è vera, la garanzia per la dignità di ogni persona. Ogni persona deve poter essere rispettata, dovrebbe poter vivere con dignità i propri diritti in modo autonomo, in dialogo con gli altri, nella storia delle nostre comunità. In questa visione sarebbero pochi i cittadini di questo mondo. Sarebbero quelli che stabiliscono la cittadinanza per tutti, ma se la stabiliscono alcuni, i più ricchi, i più forti, i più potenti, i più cinici, tanti ne restano esclusi. Il luogo teologico per interpretare la storia, la fede, per vivere in profondità, sono i poveri del mondo. Fuori dai poveri non c’ salvezza. I poveri del mondo e di questa società sono quelli che sono ai margini. Questo è il luogo antropologico da cui guardare tutto il resto.

Oggi è molto attuale la discussione sul ruolo e sulle posizioni della Chiesa nella nostra società. Spesso si è trovato controcorrente rispetto all’anima più “istituzionale” della Chiesa, auspicando che sappia aprire le porte alla storia affinché la storia stessa possa irrompere con le sue provocazioni e ricchezze. Insomma una Chiesa con la guardia bassa?
No, una Chiesa con le porte aperte. Penso che una Chiesa con le porte chiuse non sia la Chiesa del Vangelo, per nessun motivo. Chiudere le porte significa che in nome del Vangelo noi decidiamo che qualcuno può starci e qualcuno no. Gesù di Nazareth ha abitato stando in mezzo alle persone, non ha vissuto in luoghi separati, non ha creato muri e divisioni ma ha cercato di abbaterli.

Come è possibile costruire  a partire dalle nostre diocesi una chiesa più autentica, capace di accogliere non in posizione di attesa bensì di disponibilità e di ricerca?
Una Chiesa che non impone ma che ascolta e che colloquia. Una Chiesa che non fa scendere dall’alto ma entra in dialogo. Qualcuno intende questo come uno “svendere”, non è vero, anzi. Uno può affermare dialogando ma può anche affermare senza dialogare.

Questa anima della Chiesa è inconciliabile con quella più istituzionale?
Io penso, l’ho vissuto e ne ho anche sofferto, che non ci sia possibilità di conciliazione tra istituzione e profezia. Ci sarà sempre dialettica, è insanabile, è stato sempre così, dai profeti del testamento antico fino ad oggi. Certamente la Chiesa nella storia ha anche un aspetto istituzionale ma quando l’istituzione diventa così spessa, greve, opaca che rischia di offuscare, di chiudere la profezia si pone un interrogativo. Pensiamo ai “DICO”. Ho pensato dentro di me, cosa potrebbe dire la Chiesa? La Chiesa parla dell’amore e Vangelo alla mano e nel cuore dice che l’amore è la dimensione più importante della vita, che Dio è amore, che Gesù ci ha insegnato l’amore, che senza Gesù non si può vivere, che l’amore richiede sincerità, profondità, trasparenza, dedizione, sacrificio, condivisione, accompagnamento. Basterebbe una riflessione di questo tipo, di alto livello. Non serve che parli dei “DICO”. Con una riflessione di questo tipo la famiglia sposata felicemente, quella in crisi, chi convive, la coppia omosessuale o altro, sentono questo messaggio anche per loro. Tutti lo sentono per loro e direbbero: guarda la Chiesa come sa parlare a tutti. Io sogno questa Chiesa, credo in questa Chiesa perché sarebbe la Chiesa del Vangelo, che non rinuncia a dire e a proporre, ma lo fa con forza e delicatezza insieme, arrivando a tutti.
E’ come il dibattito sull’eucaristia tra separati e divorziati. E’ generico parlare di divorziati e separati, tra loro non tutti si vogliono accostare al sacramento. Occorrerebbe entrare molto di più nei percorsi personali delle persone, con molta attenzione ad ascoltare le persone.

All’ordinazione sacerdotale di un suo amico ha pregato per lui affinché non diventi un “funzionario della religione”, di un culto separato dalla vita. Di lei dice di non sentirsi pienamente prete ma di cercare di diventarlo ogni giorno. Che consigli darebbe ai giovani sacerdoti di oggi?
Di essere sinceri prima di tutto con se stessi. Tutti possiamo correre il rischio di coprirci dentro al ruolo. La vita di ogni persona è un’avventura che chiede tanta liberà e responsabilità. Il prete, per il compito che ha può certamente assumere su di sé altre attese, altri oneri. Io posso dire che il mio esser prete mi ha dato una ricchezza umana e spirituale che non avrei mai potuto vivere se non fossi sacerdote, questo è indiscutibile.

Ormai è tempo di Pasqua, cosa ci dice Gesù di Nazareth oggi, qui, nella Pasqua 2007, mentre nelle nostre Chiese lo contempleremo Crocifisso?
Contemplando Lui crocifisso ci sollecita a contemplate tutti i crocefissi della storia, perché non restino crocefissi. Non solo le persone singole, ma interi popoli crocefissi. Il Crocefissi e i crocifissi di oggi. Gesù vivendo oltre la morte ci insegna e ci comunica questa delicatezza. Gli incontri con Gesù risorto sono molto delicati, nella quotidianità della vita, nei luoghi più laici: la strada, il cimitero, la riva del mare, la stanza presa a prestito dove avevano trascorso l’ultima cena. Oggi è importante saper scorgere con questa delicatezza e con lo sguardo disponibile i segni della speranza, quelli della risurrezione che quotidianamente ci sono nella storia.

A volte davanti alle tante sconfitte sembriamo come i discepoli di Emmaus che se ne tornano a casa sconsolati. Siamo ancora capaci di lasciarci scaldare il cuore dal Viandante misterioso che ci accompagna in questo nostro tragitto?
Io penso sia fondamentale. Il Viandante per eccellenza è Lui, ma parla anche attraverso i viandanti che incontriamo nel nostro cammino.

Quali sono i segni di speranza che vede oggi?
Sono tutte le persone e le comunità, molto più numerose di quanto i mezzi di comunicazione ci fanno vedere, che in tutte le parti del mondo ogni giorno resistono, si impegnano e vivono concrete esperienze di un mondo diverso che pare dominare oggi. Io ho avuto alcune esperienze in America Latina dove ho incontrato comunità straordinarie per ricchezza spirituale, per resistenza, profondità. Anche nelle nostre comunità le persone disponibili, generose, che in modo gratuito si dedicano agli altri sono segni di una ragionevole speranza che non è un l’ottimismo facile, ma quella speranza che è passata dai momenti di “speranza contro ogni speranza”,  che si è rinfrancata anche nei suoi passaggi più difficili.

Grazie.

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