Parliamo di CITTADINANZA.
Lo facciamo con Don Pieruigi di Piazza sacerdote che, dall’osservatorio
privilegiato della casa di accoglienza per stranieri “E. Balducci” e
soprattutto da tutta la sua esperienza personale, ha fatto dell’impegno sociale
e dell’attenzione ai problemi dell’uomo il filo conduttore della sua vita di
sacerdote. Nel
1981 diventa parroco della parrocchia di S. Michele Arcangelo di Zurigliano.
Fino agli anni ’90 è attivamente impegnato nel comitato friulano per la pace,
poi intorno al 1989 orienta la sua attenzione a una nuova dimensione
fondamentale della convivenza pacifica: l’incontro con l’altro, con il diverso,
con lo straniero.
E’
così che nasce il centro di accoglienza per stranieri E. Balducci?
Il
Centro è nato dal Vangelo, dall’uso del denaro e delle strutture non in modo
individualistico, privato, elitario, ma in modo comunitario. Con un contributo
della regione abbiamo ristrutturato la casa parrocchiale ricavando da essa un
centro di accoglienza, come piccolo segno evangelico. Di fatto poi hanno
bussato alla porta degli stranieri e li abbiamo accolti. Credo ce li abbia
consegnati la storia. Oggi il Centro si è ampliato e può ospitare 50 persone ma
l’originaria radice evangelica è fondamentale. Abbiamo coniugato l’utilizzo del
denaro e dei beni in rapporto all’accoglienza delle persone. Nella società, nel
mondo e nella chiesa di oggi è sempre più importante percepire questi intrecci
profondi e non dividere le situazioni, perché sono tra loro molto legate. Uno
in una casa aperta può accogliere delle persone, ma una casa la apre perché
vive un ideale di apertura. Il vangelo sollecita a questo. Questo è il
significato della partenza e della continuità di questa esperienza che poi è
cresciuta in intensità, non solo per l’ampliamento quantitativo, ma perché
accogliere l’altro significa sempre motivare l’accoglienza di noi stessi. Il
primo altro con cui abbiamo a che fare è l’altro che abita noi, anche noi siamo
diversificati al nostro interno, non siamo un io monolitico ma siamo abitati dalla
diversità. Il rapporto con l’altro che è in noi diventa anche il rapporto con
l’altro che sta al di fuori di noi, le dimensioni sono reciproche. Oltre che la
concretezza del denaro il vangelo ha suggerito anche molto sull’accoglienza
delle persone. Il commentare insieme nell’eucaristia “ero straniero e voi mi
avete accolto” è stato il modo per dissipare le critiche che, specie nel primo
periodo non sono state ne poche ne leggere. Il vangelo è stato per noi come una
guida.
Cosa
le hanno insegnato 14 anni di accoglienza agli stranieri?
Hanno
insegnato a me e al gruppo di persone che ruotano attorno al Centro, che
accogliere l’altro significa liberarsi da quel germe di razzismo che abita
tutti noi. L’altro ci fa sempre paura, ci mette in questione e ci chiede di
rivedere i nostri atteggiamenti, chiede conoscenza e attenzione. Soprattutto
credo che la grande ricchezza sia stata quella culturale, nel senso che
accogliere persone di diversa cultura e fede religiosa ci ha concretamente
sollecitato ad uscire da una presunzione di superiorità. Il riconoscere che noi
siamo, come diceva E. Balducci, una
delle tribù della terra. Percepire sensibilità, culture, spiritualità diverse,
credo sia stato un salto antropologico. Sembra forse esagerato ma il fatto che
persone dall’Africa, dall’America Latina, dall’India, persone di comunità e di
popoli che noi come occidente abbiamo per secoli disprezzato e considerato
inferiori, vengano chiamati e convocati da noi, si siedano con noi, siano
ascoltate e da disprezzati diventino i nostri maestri, a me pare un salto
clamoroso. Questa esperienza l’abbiamo vissuta e sono stati sempre momenti
molto importanti: con una donna del Chiapas o delle Ande colombiane, del
Guatemala, dell’India o del Congo, le vittime delle tragedie di Hiroshima, di
Auschwitz, dall’Afghanistan, ci hanno comunicato una straordinaria ricchezza di
resistenza, di memorie, di progetti, di dedizione fino a dare la vita, questo è
stato un grande arricchimento, un’apertura antropologica del cuore e della
mente.
E’
vero che una volta durante una ricorrenza civile si è rifiutato di benedire la
bandiera italiana perché “può unirci nel proposito e nell’impegno per la
giustizia e per la pace ma può unire per combattere altri popoli?
La bandiera è un simbolo ambivalente, ne sono convinto. I
gesti religiosi, come benedirla, possono diventare dei fatti scontati. Talvolta
meritano un momento di riflessione. La bandiera può esprimere un grande segno
se diventa per noi un’unione per operare per la pace, la giustizia, la fraternità,
la dignità delle persone. E’ un segno da criticare o da non seguire se diventa
simbolo per andare contro gli altri.
Se
c’è una patria a cui veramente apparteniamo tutti, ha detto, è quella
dell’umanità!” Così cambia anche il concetto di cittadinanza, apparteniamo
contemporaneamente a una comunità locale e a una comunità planetaria.
Oggi è importante vivere questa simultanea appartenenza, la
cittadinanza delle comunità in cui siamo nati, in cui siamo collocati, e al
contempo la cittadinanza planetaria. Questo ci viene suggerito in modo sempre
più evidente anche dalle persone che da ogni parte del mondo sono venute a
vivere tra di noi. Non è questo uno sminuire l’appartenenza alla nostra
comunità, è viverla con un’intensità che non significa chiusura, che si
assolutizza. Se fosse così sarebbe un’identità che chiede di difendersi o di
aggredire l’altro, invece di un’identità aperta, dialettica, in un dare e in un
ricevere che diventa un arricchimento.
Bisognerebbe
inventare una bandiera per la comunità planetaria.
No, c’è già. E’ l’arcobaleno, che non è la bandiera della
pace inventata dall’uomo. E’ già nel creato come segno dell’alleanza
definitiva.
Non
crede che la condizione di straniero non dipenda più solo da un fatto di
cittadinanza? Non sono a loro modo stranieri alla nostra società i divorziati?
gli omosessuali? le giovani vite che devono ancora nascere o quelle che per
l’età o la condizione fisica “potrebbero morire”? Se cambia la definizione di
cittadinanza allora cambia anche la definizione di straniero?
Sì, se la cittadinanza è quella decisa dal mondo del
capitalismo, della quantità, dell’efficienza, del pragmatismo, della crudeltà,
chiaramente tanti non sono più cittadini di questo mondo. La cittadinanza
dovrebbe essere, se è vera, la garanzia per la dignità di ogni persona. Ogni
persona deve poter essere rispettata, dovrebbe poter vivere con dignità i
propri diritti in modo autonomo, in dialogo con gli altri, nella storia delle
nostre comunità. In questa visione sarebbero pochi i cittadini di questo mondo.
Sarebbero quelli che stabiliscono la cittadinanza per tutti, ma se la
stabiliscono alcuni, i più ricchi, i più forti, i più potenti, i più cinici,
tanti ne restano esclusi. Il luogo teologico per interpretare la storia, la
fede, per vivere in profondità, sono i poveri del mondo. Fuori dai poveri non
c’ salvezza. I poveri del mondo e di questa società sono quelli che sono ai
margini. Questo è il luogo antropologico da cui guardare tutto il resto.
Oggi
è molto attuale la discussione sul ruolo e sulle posizioni della Chiesa nella
nostra società. Spesso si è trovato controcorrente rispetto all’anima più
“istituzionale” della Chiesa, auspicando che sappia aprire le porte alla storia
affinché la storia stessa possa irrompere con le sue provocazioni e ricchezze.
Insomma una Chiesa con la guardia bassa?
No,
una Chiesa con le porte aperte. Penso che una Chiesa con le porte chiuse non
sia la Chiesa
del Vangelo, per nessun motivo. Chiudere le porte significa che in nome del Vangelo
noi decidiamo che qualcuno può starci e qualcuno no. Gesù di Nazareth ha
abitato stando in mezzo alle persone, non ha vissuto in luoghi separati, non ha
creato muri e divisioni ma ha cercato di abbaterli.
Come
è possibile costruire a partire dalle
nostre diocesi una chiesa più autentica, capace di accogliere non in posizione
di attesa bensì di disponibilità e di ricerca?
Una Chiesa che non impone ma che ascolta e che colloquia.
Una Chiesa che non fa scendere dall’alto ma entra in dialogo. Qualcuno intende
questo come uno “svendere”, non è vero, anzi. Uno può affermare dialogando ma
può anche affermare senza dialogare.
Questa
anima della Chiesa è inconciliabile con quella più istituzionale?
Io
penso, l’ho vissuto e ne ho anche sofferto, che non ci sia possibilità di
conciliazione tra istituzione e profezia. Ci sarà sempre dialettica, è
insanabile, è stato sempre così, dai profeti del testamento antico fino ad
oggi. Certamente la Chiesa
nella storia ha anche un aspetto istituzionale ma quando l’istituzione diventa
così spessa, greve, opaca che rischia di offuscare, di chiudere la profezia si
pone un interrogativo. Pensiamo ai “DICO”. Ho pensato dentro di me, cosa
potrebbe dire la Chiesa ?
La Chiesa
parla dell’amore e Vangelo alla mano e nel cuore dice che l’amore è la
dimensione più importante della vita, che Dio è amore, che Gesù ci ha insegnato
l’amore, che senza Gesù non si può vivere, che l’amore richiede sincerità,
profondità, trasparenza, dedizione, sacrificio, condivisione, accompagnamento.
Basterebbe una riflessione di questo tipo, di alto livello. Non serve che parli
dei “DICO”. Con una riflessione di questo tipo la famiglia sposata felicemente,
quella in crisi, chi convive, la coppia omosessuale o altro, sentono questo
messaggio anche per loro. Tutti lo sentono per loro e direbbero: guarda la Chiesa come sa parlare a
tutti. Io sogno questa Chiesa, credo in questa Chiesa perché sarebbe la Chiesa del Vangelo, che non
rinuncia a dire e a proporre, ma lo fa con forza e delicatezza insieme,
arrivando a tutti.
E’
come il dibattito sull’eucaristia tra separati e divorziati. E’ generico
parlare di divorziati e separati, tra loro non tutti si vogliono accostare al
sacramento. Occorrerebbe entrare molto di più nei percorsi personali delle
persone, con molta attenzione ad ascoltare le persone.
All’ordinazione
sacerdotale di un suo amico ha pregato per lui affinché non diventi un
“funzionario della religione”, di un culto separato dalla vita. Di lei dice di
non sentirsi pienamente prete ma di cercare di diventarlo ogni giorno. Che consigli
darebbe ai giovani sacerdoti di oggi?
Di essere sinceri prima di tutto con se stessi. Tutti
possiamo correre il rischio di coprirci dentro al ruolo. La vita di ogni
persona è un’avventura che chiede tanta liberà e responsabilità. Il prete, per
il compito che ha può certamente assumere su di sé altre attese, altri oneri.
Io posso dire che il mio esser prete mi ha dato una ricchezza umana e
spirituale che non avrei mai potuto vivere se non fossi sacerdote, questo è
indiscutibile.
Ormai
è tempo di Pasqua, cosa ci dice Gesù di Nazareth oggi, qui, nella Pasqua 2007,
mentre nelle nostre Chiese lo contempleremo Crocifisso?
Contemplando Lui crocifisso ci sollecita a contemplate
tutti i crocefissi della storia, perché non restino crocefissi. Non solo le
persone singole, ma interi popoli crocefissi. Il Crocefissi e i crocifissi di
oggi. Gesù vivendo oltre la morte ci insegna e ci comunica questa delicatezza.
Gli incontri con Gesù risorto sono molto delicati, nella quotidianità della
vita, nei luoghi più laici: la strada, il cimitero, la riva del mare, la stanza
presa a prestito dove avevano trascorso l’ultima cena. Oggi è importante saper
scorgere con questa delicatezza e con lo sguardo disponibile i segni della
speranza, quelli della risurrezione che quotidianamente ci sono nella storia.
A
volte davanti alle tante sconfitte sembriamo come i discepoli di Emmaus che se
ne tornano a casa sconsolati. Siamo ancora capaci di lasciarci scaldare il
cuore dal Viandante misterioso che ci accompagna in questo nostro tragitto?
Io penso sia fondamentale. Il Viandante per eccellenza è
Lui, ma parla anche attraverso i viandanti che incontriamo nel nostro cammino.
Quali
sono i segni di speranza che vede oggi?
Sono
tutte le persone e le comunità, molto più numerose di quanto i mezzi di
comunicazione ci fanno vedere, che in tutte le parti del mondo ogni giorno
resistono, si impegnano e vivono concrete esperienze di un mondo diverso che
pare dominare oggi. Io ho avuto alcune esperienze in America Latina dove ho
incontrato comunità straordinarie per ricchezza spirituale, per resistenza,
profondità. Anche nelle nostre comunità le persone disponibili, generose, che
in modo gratuito si dedicano agli altri sono segni di una ragionevole speranza
che non è un l’ottimismo facile, ma quella speranza che è passata dai momenti
di “speranza contro ogni speranza”, che
si è rinfrancata anche nei suoi passaggi più difficili.
Grazie.
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